**La storia della Indian Motorcycles Company**
Fa freddo a Springfield, anche se siamo solo in autunno. Anche perché questa è una delle vere tre città USA con questo nome, in mattoni e cemento, non quella della serie a cartoni con i personaggi itterici.
In cima alla Cross Street Hill, pendenza al 20%, un gruppetto di uomini confabula velocemente, quasi tutti hanno in mano un foglio, un notes, qualcosa su cui scrivere e la penna. Sono dei giornalisti sicuramente, lo si capisce dall’abbigliamento e soprattutto dal cappello, con l’immancabile segno bianco sulla falda. Stanno aspettando qualcosa.
Uno si distingue, perché non è dei loro, veste differentemente e sta armeggiando operoso attorno ad uno strano affare ingombrante. Gli gira attorno, lo regola, si nasconde sotto un telo nero, gioca con una polvere puzzolente, poi rispunta fuori e da una scorsa verso il fondo valle.
Poveri fotografi di inizio secolo.
Ah giusto! L’anno è il 1901 e questa piccola folla è in attesa di vedere alla prova una nuova motocicletta che promette di fare faville.
In fondo alla discesa, due uomini vestiti in nero stanno armeggiando attorno al trabiccolo, uno in sella, l’altro accovacciato accanto a questa strana bicicletta scura, con qualcosa sotto la canna che ancora non si distingue bene ed una pinna dietro da cui si riesce a leggere solo la scritta “Indian”.
Ad un tratto un bel rumore pieno e scalpitante raggiunge le orecchie degli astanti e qualcuno annota già una facilità interessante nell’andare in moto, cosa alquanto gradita all’epoca.
L’uomo in sella intanto sta guardando dritto e fiero davanti a se l’impervia china.
Una manciata di secondi ed il centauro è già lanciato nella sua corsa, mentre il rombo del piccolo velocipede sale costante e senza incertezze. A metà tragitto un improvviso stop.
“Ci risiamo, il solito bidone costruito in una baracca chissà dove”, inizia a sussurrare uno dei giornalisti.
Invece la mossa è calcolata per dimostrare come il nuovo bolide oltre che potente, sia anche particolarmente innovativo e molto più efficace della concorrenza, grazie ad una trasmissione a catena che soppianta le tradizionali ed inefficienti cinghie.
In cima, la prova diventa trionfo, il magnesio esplode più volte e le penne corrono veloci, regalando il giorno successivo un entusiastica pubblicità sui giornali al nuovo prodotto.
La prima Indian della storia aveva fatto il suo trionfale ingresso sulla pionieristica scena motociclistica mondiale di inizio secolo.
I suoi cretori: George Hendee ed Oscar Hedstrom, quelli vestiti in nero, incassato il successo, potevano finalmente fondare la loro società, la Hendee Manifacturing Company ed iniziare la produzione in serie della motocicletta, lontano dalla prima scalcinata officina di Middletown, in un locale riadattato, sopra l’originaria fabbrica di biciclette di Hendee.
Questo bostoniano, ex ciclista professionista, era infatti da impegnato con ottimi risultati nella costruzione e la vendita di bici e l’incontro con il geniale immigrante svedese Hedstrom, che nel 1898 aveva messo a punto il suo primo monocilindrico, migliorando il De Dion Bouton di importazione europea, doveva forzatamente fare scintille, all’inizio di un secolo che si stava dimostrando avido di nuovi modelli di trasporto privato.
Già nel 1902 le motociclette con l’indiano sono creature di successo, premiate all’annuale Stanley Bicycle Show di Londra e nel 1903, mentre William Harley ed i fratelli Davidson mettono su la baracca di Jouneau Avenue, Hendee Manifacturing Company è già sinonimo di qualità ed una grande industria emergente.
Parola d’ordine: innovazione! Nel 1905 le due ruote di Springfield vengono dotate di una forcella a molla per una guida più confortevole e delle manopole per il controllo di accensione e velocità. Risultato, un altro strepitoso successo, con 1181 motocliclette vendute in un solo anno.
L’ingresso, due anni dopo nella compagnia di Charles Gustafson, meccanico autodidatta ed ingegnere estroso, diede un’ulteriore spinta al progresso tecnologico dei veicoli. Usciva infatti nel 1908, la prima bicilindrica V-Twin, 627,7 di cilindrata, con indicatore del livello dell’olio e sfavillante livrea blu royal.
Indian si era assicurata un futuro luminoso per i successivi 10 anni, individuando un segmento di mercato che avrebbe motorizzato l’America. Parallelamente continuava la produzione dei monocilindrici, nella convinzione che ci fosse comunque spazio per una domanda di motocicli leggeri. Previsione azzardata e troppo in anticipo sui tempi, visto che questo tipo di moto vedrà il successo solo molti anni dopo, con l’avvento di primi prodotti giapponesi, quando ormai Indian era solo un icona del passato.
Nel frattempo, consapevoli della pubblicità enorme proveniente dalle gare sportive, gli illuminati amministratori misero in vendita nel 1908 una serie limitata di un modello da competizione su base bicilindrica, di quasi 1000 cc, che inizio a far mangiare la polvere a molti concorrenti sui velodromi di metà Stati Uniti.
La Prima Guerra Mondiale però incombeva funerea sui destini produttivi di molte intraprese in tutto il Mondo.
Nel frattempo, la fabbrica si era allargata, comprendendo ora due stabilimenti, quello di State Street e quello di Hendeeville, grazie al capitale che era piovuto dalla vendita di ulteriori azioni della Società, che causò però il passaggio del timone dai fondatori agli azionisti.
Un altro uomo chiave però faceva il suo ingresso nella compagnia nel 1911: Charles Bailey Franklin, uno dei tre famosi corridori che sulle motociclette con l’indiano sul serbatoio, aveva monopolizzato l’ultimo Tourist Trophy, nell’Isola di Man.
Nel 1912 venne sviluppato un telaio completamente ammortizzato, mentre l’anno seguente fece il suo ingresso aul mercato la prima motocicletta con ammortizzatori posteriori e purtroppo Oscar Hedstrom usciva contemporaneamente dalla compagnia per motivi personali, legati quasi sicuramente all’avidità dei soci, che mortificavano la sua passione per la perfezione tecnica dei mezzi.
Ma la coppia Gustafson-Franklin, doveva ancora dare il suo meglio.
Nel 1916 infatti il primo mette a punto lo stratosferico ed arci-famoso motore “Powerplus”, mentre il secondo migliorandolo ed offrendogli la cilindrata si 600 cc. lo fa diventare il cuore del maggior successo commerciale della compagnia fino al 1927.
Era nata la mitica Indian Scout!
Nel frattempo l’affondamento del transatlantico Lusitania da parte di un sottomarino tedesco U-20 a largo dell’Irlanda e le schermaglie contro imbarcazioni civili, trascinavano malvolentieri gli Stati Uniti nel conflitto mondiale. Il Paese più importante del mondo, ci arrivava però con un esercito valoroso, ma fermo alle tecnologie della guerra di secessione, dove mobilità coincideva con cavallo; mentre il rivoluzionario Pancho Villa, aveva già sperimentato durante la guerra civile l’efficacia delle motociclette come mezzi veloci e leggeri per la consegna di messaggi lungo tutto il fronte.
Il Presidente Woodrow Wilson fece allora appello all’industria americana perché dotasse in fretta e furia le sue truppe di motociclette accessoriate di supporti per le mitragliatrici o in versione sidecar.
La risposta fu imponente, tanto che nel 1918, l’esercito poteva contare su 70.000 mezzi, tra Indian, Harley-Davidson, Cleveland ed Excelsior; 41.000 solo quelli provenienti da Springfield.
Alle case erano parsi una manna dal cielo i cospicui contratti del Governo e si erano lanciate senza indugi nella produzione, allargando stabilimenti ed assumendo manodopera al servizio della guerra.
Quando poi le polveri furono spente e l’inflazione post-bellica iniziò a farsi sentire, proprio chi aveva lavorato di più si trovò più esposto e la Hendee Manifacturing C. dovette affrettarsi a mettere in commercio per il 1919 una nuova linea di bicilindriche economiche per i civili, denominata “Modello N”.
Il tarlo della crisi finanziaria aveva tuttavia iniziato ad intaccare la scorza della fabbrica delle indiane ed un perverso ciclo senza fine stava iniziando a risucchiare la compagnia verso il basso.
Con l’aria nebbiosa di pessimismo che segue al solito un conflitto, la Hendee Manifacturing Company fece il suo ingresso negli anni ’20, con la certezza di avere in casa un modello longevo e di successo. Tuttavia affacciandosi alla finestra dall’ultimo piano dei suoi uffici, Hendee non poteva ignorare le nubi che si addensavano all’orizzonte e che si chiamavano: contrazione del mercato motociclistico statunitense in generale, pressione per l’aumento dei salari da parte dei colletti blu yankees.
Indian rispose nell’unico modo che conosceva e che l’aveva resa celebre. Ancora una volta con l’innovazione. Alla pigrizia del mercato contrappose la splendida Chief, il capolavoro di Charles Franklin, che nel 1922 mise in strada un V-twin con inclinazione di 42°, con un prezzo di 435 dollari.
Un modello che, in versione sidecar, apprezzeranno molto anche gli uomini di Al Capone e degli altri personaggi di malaffare che, in quegli anni di proibizionismo, si guadagnavano di che vivere (molto bene!) con il contrabbando degli alcolici.
Un imprevisto che rovistava nel ventre stesso della compagnia, faceva però capolino da dietro l’angolo. Un accumulo sbagliato di materie prime e quindi un innalzamento eccessivo dell’indebitamento, accoppiato ad una flessione delle vendite che asciugò i flussi di cassa, costrinsero gli amministratori ad una riorganizzazione della compagnia, che prese finalmente il nome di “The Indian Motorcycle Company” e venne resa pubblica.
Nonostante sforzi, impegno e ricapitalizzazione, tuttavia il 1924 mostrò al mondo delle due ruote tutta la sua amarezza, lasciando in bilico l’indiano e colpendo furiosamente tre altri marchi storici, Ace, Excelsior e Henderson, che si videro costretti a ridurre la produzione, rimanendo di fatto ai margini del mercato.
Un omino grigio, di fumo vestito e con un cappelletto di tenebra aveva fatto il suo ingresso nel mondo dei motori con il suo lampo di genio, l’oggetto che diede la svolta del secolo al mondo dell’automobile. Di nome faceva Henry, di cognome Ford e l’omonima vetturetta vi aggiungeva solo la sigla T. Il più grande successo motoristico di tutti i tempi, non tanto per i numeri, ma perché regalò agli americani il sogno di possedere un’auto, di non bagnarsi la testa se faceva due gocce d’acqua, di andare dal punto A al punto B, comodamente seduti in poltrona. Era iniziata insomma l’epoca della motorizzazione di massa e ne pagava le conseguenze quello che fino ad allora era stato l’unico mezzo di trasporto a motore di uso privato, accessibile alla gente comune, la motocicletta appunato. Che stava gradualmente passando da un ruolo sociale chiaramente legato al bisogno di spostarsi e lavorare e quindi base dello sviluppo economico, a veicolo di puro piacere per il tempo libero, pian piano avvicinandosi al puro feticcio edonistico del post ’60.
Nemmeno i mercati stranieri, che stavano iniziando ad apprezzare il prodotto veloce ed innovativo con le penne sul serbatoio, funsero più da volano per la produzione, a causa di Churchill che decise di imporre un dazio sull’importazione di motoveicoli stranieri del 33% sul loro valore originario, tagliando le gambe in un solo istante alle velleità espansionistiche della Indian.
Nel frattempo però, grandi soddisfazioni giungevano comunque dai circuiti nei quattro angoli degli States, dove le motociclette con l’indiano, nel loro splendido vestitino rosso, spesso guidate da Johnny Seymour, vincevano, stravincevano ed infrangevano record a ripetizione. Umiliando più di una volta anche un altro grande del motociclismo sportivo, con un cognome che fa tanto paisà; stiamo parlando ovviamente di Joe Petrali e la sua H-D.
Nell’estate nel ’26, Fast Johnny, raggiunse 185 Km orari sulla sabbia dorata di Daytona, a cavallo di una monocilindrica da 500 cc. Poi scese, cambiò il motore alla stessa moto, installando un bicilindrico di pari cilindrata e ne approfittò per polverizzare un altro record. 212 km orari raggiunti e “La messa è finita”, con buona pace degli altri poveri spasimanti all’alloro.
Un piccolo escamotage diffusosi fra i piloti e migliorato dalla stessa Company, rese le Scout praticamente imbattibili per un lustro e con costi irrisori, partendo dal modello di serie, regolarmente in commercio.
Bastava infatti sostituire gli originali con volano e perno di biella della Chief e montare una coppia di pistoni realizzati su misura ed il gioco era fatto. La cilindrata aumentava fino a 935 cc e l’accresciuta corsa del pistone rendeva più potenza, accelerazione e velocità massima. Si chiamava “Stroker”.
Intanto un gruppetto di manager lungimiranti intravide un futuro prospero per un modello di motocicletta leggero e poco impegnativo e nacque così il modello L Indian Prince, di soli 348 cc e 185 dollari di prezzo. Avevano ragione, ma si sbagliarono di 20 anni, visto che l’ascesa di questo tipo di veicoli, fino al boom degli anni ’70, non sarebbe iniziata prima della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Altro errore commerciale, rispondere alla concorrenza di un prodotto, ai tempi sostitutivo, come la Ford T, cercando di combattere l’avversario sul suo stesso campo, ovviamente a lui più favorevole.
Tradotto, lanciare nel 1928 una vetturetta con poche pretese ed equipaggiata con il motore motociclistico della Chief, che invece di donarle il lustro di cotanta sorellina a due ruote, le regalò soltanto un bel carico di vibrazioni, inguaribili e mai migliorate e che resero il prodotto inevitabilmente poco appetibile.
Intanto altri danari erano volati via dalla finestra.
Non fu questa comunque la tegola più forte del periodo, bensì la decisione dello zoppo di accoppiarsi ad un cadavere conclamato, acquistando la britannica Ace in gravissima agonia finanziaria.
La primogenita del matrimonio, la prima Indian Four, era di fatto un pargolo illegittimo rivestito dei colori del nuovo padre-padrone, visto che altro non era che una Ace ridipinta.
La novità più bella nacque comunque proprio in mezzo a questo marasma di scelte più o meno azzeccate.
La Scout era stata continuamente migliorata dalla sua uscita nel 1920 e dotata di nuovi parafanghi nel ’26. Nel 1927 tuttavia venne completamente ridisegnata da Franklin e dotata di un nuovo V-twin a valvole laterali, con misure di alesaggio e corsa, rispettivamente di 7,3025 cm e 8,89 cm, per 740 cc di cilindrata.
Il nuovo gioiello di casa poteva raggiungere velocità superiori ai 132 Km orari in configurazione standard; inoltre, una maneggevolezza leggendaria che le consentirono di diventare la Indian più famosa di tutti i tempi, con il nome di Scout 101.
Come per il decennio precedente tuttavia, proprio quando l’indiano stava risollevando il copricapo e dissotterrando l’ascia di guerra, il vento dell’economia iniziò a soffiare una brutta bora, che di lì a poco avrebbe travolto Wall Street e l’intero mondo finanziario. Si avvicinava il fatidico 24 ottobre 1929 e l’inizio della Grande Depressione.
Nel grande ufficio di Hendee, nell’angolo buio in fondo alla stanza, una grossa pila di carta fa bella mostra di sé; sembra una piccola montagna innevata per colpa del candore omogeneo che mostrano le tante buste. Spunta qualcuna giallastra, che decisamente stona con lo strano collage, ma al dirigente piacciono, spera sempre che quelle poche diverse, dentro contengano un messaggio positivo, rincuorante, semplicemente diverso dagli altri.
La catasta infatti è uniforme fuori e purtroppo altrettanto dentro, sono le migliaia di proteste dei clienti e dei rivenditori per il ritiro dal mercato della migliore motocicletta americana di tutti i tempi, la Scout 101.
La fanno facile loro, cosa ne capiscono di economie di scala, crisi finanziaria, svalutazione del dollaro, apprezzamento delle materie prime.
Questi buzzurri, testoni e bovari sanno solamente correre, con i cavalli fino a 30 anni fa, con le motociclette oggi, come se ci fosse sempre una frontiera da rincorrere, un sogno da inseguire. E poi … e poi … hanno fatto la fortuna di questa impresa! Già, come fare per non chiudere la baracca e non deluderli allo stesso tempo?
Nel 1932, in piena Grande Depressione la Indian lancia la nuova Scout, cilindrata 750 cc, ma fa base sul telaio della Chief, per risparmiare sui costi ed è dura rinverdire i fasti del precedente modello archiviati l’anno precedente.
Viene aggiunta anche una versione da 500 cc, la Scout Pony, sul mercato a soli 275 dollari, una manna per le tasche spremute dell’americano medio dovettero pensare i manager dalla Company; in realtà “l’ossatura” della sorella maggiore le toglie la caratteristica principale e la fonte di cotanto precedente successo, la maneggevolezza.
Alcuni rivenditori, delusi, rinunciarono addirittura alla loro licenza di vendita.
Qualcosa cambiò con il progetto Scout Sport, che vide la luce nel ’34 con uno scattante 750 nuovo di zecca, assemblato nel fiammante stabilimento di Springfield e dotato di meraviglie tecnologiche come il sistema di drenaggio della coppa dell’olio, il primo sistema di ricircolo automatico dell’olio motore e optional un sistema di accensione a magneto.
Finalmente qualcosa che poteva tornare a competer e vincere contro le nuove, performanti H-D sette e mezzo, acerrime rivali di sempre.
Nel 1936 la Sport fu affiancata dal modello 45, dotato di sidecar, mentre la Chief rimaneva comunque il modello di punta sulle grandi cilindrate, viste le alterne fortune del modello Four, mutuato come detto dalla britannica Ace.
Il 7 dicembre del 1941, l’alba tersa di Honululu è squarciata da spaventosi fragori, mentre una tetra nube nera inizia ad addensarsi nell’aria appena fresca della prima mattina.
E’ quasi Natale, ma tutti qui vanno a maniche corte e tra pochi minuti tutto sembrerà triste e drammaticamente tragico. I giapponesi hanno attaccato Pearl Harbour e trascinato per i piedi i sonnacchiosi States nel più grande conflitto della storia. La Seconda Guerra Mondiale ha fatto capolino anche in Paradiso, dove non avremmo mai creduto potesse arrivare.
Il gigante destato a forza dal suo sonno è ferito, punto nel vivo, ma non moribondo, richiama a raccolta le sue forze e rinnova la richiesta di impegno alle sue possenti membra. Le mani di questo dominante corpo si chiamano Harley-Davidson e Indian e iniziarono a fregarsi tra loro soddisfatte per un fresco ordine di 2000 motociclette ciascuna, che motorizzeranno i ragazzi alla volta dell’Europa.
Tanti anni più tardi questo sarà il prezioso patrimonio semi-nascosto da un colore verdone olivastro e tanta ruggine che gli yankees lasceranno nei garages di molti dei nostri nonni, per la gioia di noi Indiana Jones di periferia. Periferia del mondo a motore, si intende.
Ma torniamo al conflitto.
La casa dell’Indiano era già di fatto pronta alla fornitura, dato che dal ’39 serviva il Governo Francese con un ordine complessivo di 5.000 Chief, in configurazione Sidecar, ma ancora aveva qualche colpo di tosse finanziario, residuo della Depressione.
Ma ordini dei Governi volevano dire anche spinta all’innovazione tecnologica, tanto più che una fabbrica bavarese che di moto se ne intendeva aveva appena dotato le truppe nemiche di un potente modello con nuovo albero motore e forcella telescopica ed un indistruttibile motore “boxer”.
H-D rispose con il modello XA, (a dirla tutta una copia del performante propulsore teutonico), mentre Indian mise in campo il modello 841.
Un’altra casa europea, suo malgrado, creò ulteriori spazi per i bicilindrici americani, la Triumph, ahimè bombardata nei suoi stabilimenti di Coventry dalla Luftwaffe e che spinse gli inglesi ad ordinare 5.000 Indian anche loro, per proseguire l’offensiva bellica.
Mors tua vita mea!
Tuttavia, il sacrosanto detto iniziò a rovesciarsi, quando furono le sorti della guerra stessa a ribaltarsi ed i tedeschi a morire e con l’avanzata vittoriosa degli Alleati, calavano anche le necessità di ordinare nuovi motocicli; così di 3.500 Indian fiammanti e pronte per il fronte, 2.000 rimasero sul groppone della Compagnia.
Nell’ottobre del 1945 il glorioso marchio e tutta la preziosa dote di know how dell’indiano fu acquistata da un industriale ambizioso, che capiva poco di moto ma aveva fama di ottimo amministratore: Ralph Buron Rogers.
Dopo poco il facoltoso magnate aggiunse alla sua lunga collezione di imprese (possedeva anche una ditta di motori diesel, una di falciatrici ed una che produceva carrozze ferroviarie) la Torque Engineering Company, che progettava la produzione di motociclette di piccola cilindrata a Plainville.
L’idea che Rogers ed il suo consiglio pensarono geniale fu quella di produrre queste due ruote leggere ed affiancarle ai grossi bicilindrici di Springfield, sfruttandone la rete commerciale già diffusa. Molto lavoro sarebbe dovuto essere fatto per motivare e convincere quei caproni tradizionalisti dei dealers.
In realtà gli ostacoli più grandi venivano da molto più in alto.
Il piano Marshall che puntava alla ripresa economica europea sfavoriva evidentemente i prodotti a stelle e strisce, abbinato alla naturale inflazione dilagante tipica del dopoguerra, divenne una bomba ad orologeria.
Nel 1946 una nuova Chief vide la luce, facendo largo uso delle innovazioni sperimentate sul modello 841, come la nuova forcella, mentre qualcuno invocava a gran voce un rientro sul mercato della Scout Sport ante-guerra.
Ma i problemi non finivano qui.
L’invasione delle motociclette inglesi, leggere, performanti e soprattutto convenienti andò a acuire la crisi dovuta agli errori di progettazione ripetuti sulle Torque, in uscita sul mercato, insieme ad un clamoroso errore di valutazione dei costi di produzione della motocicletta che di fatto veniva proposta ad un prezzo al pubblico inferiore ai danari necessari per costruirla. E l’esposizione finanziaria aumentava vertiginosamente.
Rogers corse in Europa a cercare benefiche alleanze, che avevano il volto di John Brockhouse, direttore amministrativo della Brockhouse Engineering Ltd, proprio mentre la prima banca iniziava a reclamare il suo diritto di rivalsa sul debito della Compagnia, paventando lo spettro del sequestro di impianti e macchinari.
Il tunnel era quasi finito, ma in fondo non si intravedeva la luce. Pochi passi ancora e sarebbe diventato un vicolo cieco.
Fu tentato di tutto. La Indian diventò importatore di motociclette inglesi, provò a modernizzare la Chief e lanciò la Warrior, un modello dotato di bicilindrico verticale da 500 cc e linea ispirata platealmente alle due ruote d’oltre oceano; ma la mazzata finale arrivò proprio di ritorno dal Vecchio Continente, quando l’Inghilterra decise di svalutare la sterlina quasi del 20%, togliendo ai bicilindrici americani ogni parvenza di competitività sul mercato europeo.
La produzione della Chief continuò fino al 1953, quando uscì l’ultimo modello, in livrea rigorosamente rossa dagli stabilimenti di Springfield ed un operaio con le lacrime agli occhi chiuse tristemente i cancelli dietro di sé, per sempre!
La storia della Indian Motorcycles Company, quella vera, finisce qui.
Bellissima.......mi è sempre piaciuto sapere la storia delle moto e dei suoi uomini....oltretutto narrata in maniera avvincente....grazie ......lamps
:)
bella e triste storia...cmq una indian con cambio manuale ci starebbe nel garage della mia fantasia....
grazie Street!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
grazie mille street :D
si però... carica dei file audio!! troppa roba da leggere :lol:
Bella questa storia, comunque dai sembra che la Indian sia ritornata grazie al gruppo Polaris.
purtroppo solo nel nome.... niente altro
A 150 all'ora senza freni, nel 1914
Uno dei pezzi rari della prossima asta Bonhams è la Indian Model F del 1914 appartenuta a Steve McQueen. Una moto da corsa per piloti coraggiosi
La casa d'asta inglese Bonhams metterà in vendita un lotto di 242 moto durante il Motorcycle Show International Classic, di Stafford, domenica 28 aprile.
Si tratta di moto possedute da diversi collezionisti e alcuni sono pezzi veramente rari o pregiati. Come tre Brough Superior, tra cui una SS 80/100 stimata fra i 185mila e 235mila euro, e la Vincent Black Shadow completamente restaurata del record di velocità stabilito alla 24 Ore di Montlery nel 1952, stimata fra i 130mila e i 150mila euro. E poi ci sono una quindicina di Triumph, dalla Speed Twin del 1953 alla TSX dell'82, fra i 2.500 e i 10.000 euro, moderne Ducati Senna e Desmosedici in contrapposizione a Peugeot 3,5HP del 1905 e Excelsior 61 del 1913.
Una delle moto più interessanti è la Indian F del 1914, già appartenuta alla raccolta di Steve McQueen (come la Chief del 1940 fotografata con l'attore americano nella gallery fotografica) e passata a un altro collezionista durante un'altra asta in California nel 2010. Interessante perché la Model F è stata una vera mattatrice delle prime gare Board Track di inizio Novecento. Quando le corse si disputavano nei velodromi, prima che venissero costruiti i primi ovali con curve sopraelevate e fondo rivestito con assi di legno inchiodate. Guidare moto come la Indian F richiedeva un grande coraggio, perché la velocità poteva superare i 150 orari e quella specie di bicicletta cresciuta non aveva frizione e soprattutto non aveva acceleratore e freni: veniva avviata a spinta e dopo la gara il pilota toglieva la corrente all'accensione per spegnere il motore e rallentare. Naturalmente si correva con abbigliamento leggero e senza casco, e senza nessun sistema per fermarsi in fretta in caso di necessità. Il concetto di sicurezza non era ancora nato. La stima di questa Indian F datata 1914 va da 25mila a 32mila euro.
Un pezzo di storia Street, più che piloti coraggiosi direi senza testa :)